venerdì 22 giugno 2012

Zita

di Enrico Deaglio - Il Saggiatore

Ci sono libri che lasciano il segno. Ci sono libri che ti lasciano a bocca aperta. Ci sono libri che ti trasportano tra le parole come in un volo su una verde valle alpina con il vento tra i capelli. 'Zita' è uno di quelli.
E sapete il perché? Perché Deaglio ha la rara capacità letteraria di volare tra i diversi livelli di narrazione, riuscendo a integrarli, a farli parlare tra loro, fondendoli.
Non è da tutti.
Quando uno scrittore sceglie di alternare la narrazione - flashback continui, note in corsivo e vicenda contemporanea - lo fa a suo rischio e pericolo.
Probabilmente starò rincitrullendo, ma quando comincio a leggere libri con diversi piani di racconto, spesso mi perdo, mi innervosisco, e continuare la lettura diventa un vera e propria tortura.
Zita è invece un manuale eccelso di scrittura.
È la storia di una donna, un tempo giovane 'rivoluzionaria' sconfinata in qualche azione di terrorismo, che dopo anni deve affrontare la vittima del suo attentato, forse per presentare il conto o forse semplicemente per fare affari insieme.
E in questo viaggio di 'espiazione' sui generis, il racconto guarda al passato, a Cesare Pavese, a Torino teatro di lotte, fino al forzato 'esilio' a Parigi e al ritorno in Italia.
La storia di una vita, di una donna che deve confessare di 'aver vissuto' e di aver vissuto tutto.
È il primo libro di narrativa di Deaglio che leggo, quindi non so come e se ha scritto prima, cosa ha scritto prima e se scriverà ancora.
L'ho sempre conosciuto, e seguito, come giornalista, prima di barricate e poi di attento osservatore dei nostri giorni.
Questo libro è bellissimo proprio perché, nello stile, se mi posso permettere, l'autore riesce a fondere meravigliosamente la sua anima di informatore professionista a una narrazione letteraria.
Il libro ti scorre tra le dita, e manco te ne accorgi.
Ma alla fine ha lasciato molti segni sulle tue mani.

martedì 19 giugno 2012

Il materiale del killer

Starò invecchiando, starò diventando un bacchettone della peggiore risma, ma ormai i libri 'volgari', pieni di espressioni scurrili mi stanno ormai naturalmente stretti. E quindi non mi piacciono, ma proprio per nulla.
L'ispettore Ferraro sta diventando un personaggio un po' disgustoso, un po' tonto, un po' a rimorchio, un po' furbino e un po' insopportabile.
E, mi perdoni Biondillo - che ho sempre apprezzato - anche la storia sta in piedi con stampelle claudicanti e con grande fatica.
Questo intreccio tra rivoluzionari venduti al migliore offerente e carceri e malavita nostrane, risulta essere ostica al lettore - cioè io - perché non è realistica, si inceppa, è stilisticamente forzata.
E anche quello scenario sullo sfondo di Milano e delle sue contraddizioni, elemento portante di tutti i precedenti libri dell'autore nostrano, in questa fatica scompaiono visto che si è integralmente in trasferta, tra metropoli come Lodi e la capitale vera di questo disastrato paese.
È vero che il lettore seriale ama ritrovare i suoi contorni, libro dopo libro, ma è anche vero che lo scrittore seriale, se vuole esserlo, deve mantenere alcuni capisaldi senza tanti colpi di testa.
Il lettore seriale, ammettiamolo, in fondo è tradizionalista, conservatore, reazionario.
E lo scrittore seriale, se tanto vuole fare il rivoluzionario, deve saper conciliare i due opposti.
Eccheccavolo...


 
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